Sono tempi pericolosi, dobbiamo aggiustare molte cose… Essere qui con voi, persone di grande creatività, ha un enorme valore per me». Comincia così la lectio magistralis di Jeffrey D. Sachs all’Accademia di Belle Arti di Roma che si è tenuta il 2 febbraio davanti a una platea gremita di studenti, futuri artisti provenienti da diverse parti del mondo e numerosi invitati esterni, tra cui diplomatici e professori di altre università e discipline. Ho introdotto il professor Sachs come un «pensatore sistematico». Già consigliere di tre segretari generali delle Nazioni Unite, economista formato ad Harward e professore alla Columbia University, Sachs è presidente e direttore del Sustainable Development Solutions Network delle Nazioni Unite. Un pensatore sistematico perché, passo dopo passo nella sua carriera, è stato in grado di costruire una nuova visione del mondo mettendo in dialogo differenti discipline, dall’economia alla geopolitica, dalle scienze sociali all’ambiente. Ognuno di questi campi è tremendamente complesso già di per sé, ma il merito principale di Sachs è stato quello di considerarli profondamente collegati in un sistema ancora più complesso, grazie al quale poter esaminare il dilemma tra povertà e crescita economica, affrontare la trasformazione globale delle società e ideare un piano d’azione per frenare il collasso sempre più accelerato dell’ambiente.
Sull’orlo del baratro
«Non vorrei inquietare nessuno, ma attualmente siamo messi male e, quel che è peggio, non abbiamo assicurazione di poterne uscire fuori». La recentissima notizia del Doomsday Clock, in cui alcuni scienziati annunciano che mancano solo 90 secondi alla mezzanotte del disastro nucleare, è la notizia bomba con cui Sachs apre la sua lectio. «Non siamo mai stati così vicini al disastro. Hanno messo questa notizia in mezzo a tante altre, minimizzandone la portata. Ma questo è il messaggio più importante degli ultimi tempi». Sachs coinvolge subito il presidente John F. Kennedy, che nel 1961 dichiarò: «Il mondo è molto differente adesso.
Perché l’uomo ha nelle sue mani il potere di abolire ogni forma di povertà e, al tempo stesso, ogni forma di vita umana». Da questa frase emerge chiaramente l’intreccio fatale tra sostenibilità e Mad (Mutual Assured Distruction), ovvero fra il tema della redistribuzione della ricchezza, al centro delle attuali strategie di sostenibilità, e l’incubo nucleare, ovvero quella condizione paradossale di reciproca distruzione assicurata, in cui tutti ci ritroviamo a vivere a partire dal lancio delle due prime atomiche nel 1945. Se, come affermano gli scienziati del Doomsday Clock, l’orologio del 2023 segna 90 secondi alla fine, che senso ha occuparsi di sviluppo sostenibile e creatività? «Ora come ora non si vede ancora nessuna saggezza o soluzione creativa per stare alla larga dal disastro». Con questo antefatto, la lectio magistralis di Sachs comincia a snodarsi come una vera e propria lezione di storia contemporanea fondata sul raffronto tra
“Kennedy diceva che non bisogna avere paura di negoziare. Nel ‘62 la Cia voleva bombardare Cuba. Ma lui resistette. Scongiurando il disastro nucleare. Oggi invece siamo governati da pazzi. Così il conflitto atomico è un rischio concreto”
due eventi storici: la crisi dei missili a Cuba nell’ottobre 1962 e la guerra russa in Ucraina, che il 24 febbraio compirà il suo primo anno. L’intero pensiero di Sachs poggia sullo studio approfondito della politica estera e dei discorsi di Jfk, ed è da lui profondamente ispirato, al punto che l’economista nel 2014 ha pubblicato “To move the World. Jfk Quest’s for peace”, un libro non ancora tradotto in italiano da cui emerge quello che potrei definire il pacifismo pragmatico di Kennedy. La crisi del ‘62 viene utilizzata da Sachs come fondamentale case history per gli studenti. Il pensatore racconta la crisi dei missili a Cuba, ma il suo vero obiettivo è spingere per una trattativa di pace in Ucraina.
Secondo Sachs, alla fine della seconda guerra mondiale non c’era stato un accordo di pace con la Germania e conseguentemente gli Stati Uniti avevano sostenuto il riarmo dei tedeschi contro le obiezioni dell’Unione Sovietica. «Cominciano in quel momento a fronteggiarsi due paure», osserva «l’Unione Sovietica per la Germania e l’Occidente per il Comunismo. Nasce il security dilemma, in cui ogni lato vede il peggio dell’altro, qualsiasi azione viene letta non in chiave difensiva/offensiva ma solo in chiave aggressiva e quindi si ha la corsa al riarmo, l’escalation di armi nucleari e quella che verrà definita la Guerra Fredda». A questo punto Sachs cita due episodi emblematici della sfiducia reciproca tra le due superpotenze. Nel primo episodio, un aereo-spia americano viene intercettato dai sovietici mentre sorvola il loro territorio: il presidente Eisenhower smentisce dicendo che si trattava di un aereo per il servizio meteo, ma l’Unione Sovietica, che nel frattempo ha abbattuto l’aereo e catturato il pilota, dimostra al mondo che si trattava davvero di un aereo-spia militare. Nel secondo episodio, all’indomani della fallita invasione americana di Cuba nota come operazione “Baia dei Porci”, Krusciov accusa Kennedy di aver infranto le leggi internazionali che regolano la sovranità territoriale: Kennedy minimizza e rinnega la paternità di quella operazione; Krusciov gli scrive allora accusando gli Usa di mentire ancora una volta nel giro di pochi mesi. Il racconto di Sachs arriva all’ottobre del 1962, fase in cui tutti, negli Stati Uniti, consigliavano a Kennedy di bombardare le basi missilistiche scoperte a Cuba. La Cia, per fortuna sbagliando la valutazione dei fatti sul campo, come si scoprirà anni dopo, prevedeva qualche altro giorno di trattativa, perché secondo loro i missili non erano ancora operativi. Sachs si addentra nelle dinamiche decisionali di Kennedy e Krusciov, nelle loro più intime esitazioni, raccontando la storia come se fossimo lì, nelle loro teste, a ripercorrere la fitta trama degli eventi e delle decisioni da prendere. E sottolinea l’abilità del presidente americano nel prendersi del tempo per ponderare bene il da farsi. In particolare, si sofferma sull’incontro con il senatore Adlai Stevenson, ambasciatore Usa alle Nazioni Unite, che, per caso, in quei giorni si trovava a Washington e che aveva chiesto di incontrare Jfk. «Questo è il punto della mia storia: Kennedy è circondato dai suoi consiglieri: il fratello Robert, i consiglieri del Pentagono, il segretario di Stato e i militari, quello che gli storici definiscono come Excomm (Executive Committeee of the National Security Council). Ogni volta che si incontravano col presidente, tutti i componenti di questa commissione premevano affinché venisse dato ordine di bombardare quanto prima i siti presso cui erano installate le stazioni missilistiche. Dicevano: “Togli di mezzo questi missili immediatamente”. Tutti erano d’accordo. La Cia avvisava che le stazioni missilistiche c’erano, ma non erano ancora pronte ai lanci. E in più, 5.000 soldati russi erano sul suolo cubano, e bisognava tenerne conto. A questo punto, Kennedy fu molto intelligente, prese tempo, e questa sua bravura lo farà diventare un grandissimo leader. Disse: “Cerchiamo di capire meglio come stanno le cose”, e andò fuori a pranzo con Stevenson. Kennedy mostrò all’ambasciatore le foto dei missili e gli chiese consiglio sul da farsi. E Stevenson scioccò Kennedy dicendogli che avrebbe dovuto risolvere questa questione attivando la diplomazia. Kennedy gli chiese: “Cosa vuoi dire?”. “Dobbiamo negoziare questa cosa, per esempio, se noi tirassimo via i nostri missili dalla Turchia, loro potrebbero rimuovere i loro missili da Cuba”. Kennedy allora dice a Stevenson: “Tu sei l’unico che mi parla così. Tutti i miei consiglieri mi dicono di bombardare”. E Stevenson gli risponde: “Ma no, naturalmente no, questo significherebbe guerra nucleare. Noi invece dobbiamo attivare la diplomazia”. Stevenson, non facendo parte della cerchia del gabinetto di guerra, non respira quella fretta guerrafondaia che viene soffiata intorno a Jfk. Ed è proprio questo il parallelo con la storia attuale, la chiave di volta per affrontare il problema odierno: la necessità di spingere Stati Uniti e Russia ad avviare i negoziati.
Nel 2021 ho detto alla Casa Bianca: “Trattate con Mosca”. Mi hanno risposto: “La Nato ha le porte aperte”. Ma ciò è folle: le superpotenze devono stare lontane fra loro
Equilibrio necessario
«Il mondo di oggi è governato da pazzi, persone irresponsabili. La Russia ha 1.700 bombe nucleari pronte per esplodere. Gli Stati Uniti ne hanno 1.750. E noi in Europa e negli Stati Uniti abbiamo persone che tutti i giorni parlano di sconfiggere la Russia… Sono degli idioti. Vi diranno che non vi dovete preoccupare per la guerra nucleare, perché non si farà. Io vi dico invece: preoccupatevi! Io sono realmente preoccupato. Noi dovremmo essere realmente preoccupati.
Voi vi dovete realmente preoccupare della guerra nucleare!». A questo punto Sachs se la prende anche con i leader europei: «Strano che voi europei stiate zitti… Noi americani in fondo siamo naive, voi invece avete sperimentato la guerra sulla vostra pelle. Il presidente Janukovic aveva capito di essere in mezzo a due superpotenze, quindi voleva mantenere un equilibrio neutrale, e aveva spinto il Parlamento ucraino ad avere un atteggiamento di neutralità». Sappiamo tutti com’è finita.
Sachs prosegue col suo racconto a caldo: «Nel settembre 2021 ho detto alla Casa Bianca: “Negoziate con loro, evitate la guerra. Perché l’espansione Nato è un problema”. E loro mi hanno risposto: “La Nato ha le porte aperte per coloro che vogliono aderire”. È divertente! Quando Castro voleva allearsi con l’Unione Sovietica, noi non abbiamo detto “le porte sono aperte, ognuno può fare quello che vuole”. Noi abbiamo invaso Cuba. Non è così semplice quest’idea delle porte aperte, è un’idea folle. Le grosse potenze devono stare lontane tra di loro, non appiccicate l’una all’altra. È molto semplice, quando ci sono i bambini che litigano, li separi e li metti a distanza nella stessa stanza. Eppure, la cosa più semplice da fare è stata rifiutata e la guerra è cominciata il 24 febbraio. Infatti, a un mese dall’inizio della guerra, a fine marzo 2022, Zelenski voleva la pace, e aveva accettato l’ipotesi della neutralità dell’Ucraina, purché ne fosse garantita la sicurezza. Poi però i negoziati si interrompono, nessuno sa perché. La mia idea è che gli Usa abbiano mandato questo messaggio a Zelenski: “Non devi più negoziare, devi vincere la guerra sulla base del nostro supporto”. Ci sono molti rumors sul fatto che Boris Johnson, come messaggero degli Usa, sia andato in Ucraina per fermare le trattative, chiudere il negoziato e sconfiggere la Russia sul campo, grazie agli armamenti forniti dall’Occidente. Nel frattempo, tutto è peggiorato, migliaia di morti, città completamente spianate. E, per quel che io so, fino a questo momento Biden e Putin non hanno mai comunicato direttamente. Neanche una volta in un anno! Questo è qualcosa che non riesco proprio a credere. Io penso che l’allargamento della Nato sia un’idea terribile, la cosa peggiore per gli ucraini. L’Ucraina rischia di diventare l’Afghanistan dell’Europa, travolta da una guerra senza fine. I miei amici ucraini si rifiutano di accettare questa mia lettura della realtà, ma io sono stato consulente dell’Ucraina, non parteggio per l’uno o per l’altro. Io voglio la pace adesso. L’allargamento Nato deve essere fuori dal tavolo, e la Crimea non potrà tornare all’Ucraina, se non dopo una guerra nucleare, perché la flotta navale russa sta a Sebastopoli fin dal 1783. Uno dei motivi strategici dell’allargamento Nato in Ucraina è quello di circondare la flotta russa nel Mar Nero. Signore e signori, non bisogna scoraggiarsi nel trovare la pace. I termini della questione sono già stati sul tavolo due volte: nel settembre del 2021 e nel marzo del 2022. I Paesi emergenti devono alzare la voce. La pace non è impossibile. Può essere imperfetta, ma non impossibile.
Strano che voi in Europa stiate zitti… Noi Usa in fondo siamo naive, ma voi avete sperimentato la guerra sulla vostra pelle
La mia proposta è che i Paesi esterni al cosiddetto Occidente (ci sono 150 Paesi oltre l’Occidente e la Russia) gli chiedano di fermarsi: il Brasile, che per fortuna ha un grande leader come il presidente Lula, e l’India, che quest’anno ha la presidenza del G20. Sono interessato al fatto che l’Europa torni a essere intelligente, che capisca quel che sta succedendo e che attivi la diplomazia. È giunto il momento che tutto il resto del mondo alzi la voce, sei miliardi e mezzo di persone devono invitare le superpotenze a stare ognuno a casa sua e ristabilire la pace».
Siamo tutti mortali
Al termine della lectio, numerose domande vengono rivolte a Sachs. L’ultima, la più significativa, chiede: «In una trattativa bisogna essere in due. Se uno dei due non è ragionevole, cosa si può fare?». Risposta: «Nei negoziati noi non sappiamo mai quale sarà il risultato finale, ma abbiamo necessità di provare. Jfk diceva: “Non bisogna negoziare mai nella paura, ma non bisogna mai avere paura di negoziare. Gli interessi delle parti vanno rispettati”». Del resto, quello che ho già definito il pacifismo pragmatico di Kennedy è contenuto nel discorso dell’American University Commencement Address del 10 Giugno 1963, citato a memoria dal professor Sachs, che recita: «Concentriamoci invece su una pace più pratica, più raggiungibile, basata non su un’improvvisa rivoluzione della natura umana ma su una graduale evoluzione delle istituzioni umane, su una serie di azioni concrete e di accordi effettivi che siano nell’interesse di tutti gli interessati. Non esiste un’unica, semplice chiave per questa pace, nessuna formula grandiosa o magica che possa essere adottata da una o due potenze. La vera pace deve essere il prodotto di molte nazioni, la somma di molti atti. Deve essere dinamica, non statica, mutevole per affrontare la sfida di ogni nuova generazione. Perché la pace è un processo, un modo per risolvere i problemi».
Ed è proprio qui il punto di contatto con la creatività, un concetto piuttosto recente che avvicina i processi creativi alla capacità di problem solving. E ancora citando Kennedy: «Non siamo ciechi di fronte alle nostre differenze, ma rivolgiamo anche l’attenzione ai nostri interessi comuni e ai mezzi con cui tali differenze possono essere risolte. E se non possiamo porre fine ora alle nostre differenze, almeno possiamo contribuire a rendere il mondo sicuro per la diversità. Perché, in ultima analisi, il nostro legame comune più basilare è che abitiamo tutti questo piccolo pianeta. Respiriamo tutti la stessa aria. Tutti abbiamo a cuore il futuro dei nostri figli. E siamo tutti mortali». E qui scroscia un applauso liberatorio di apprezzamento e condivisione, interminabile. Kennedy e Sachs sono ormai una sola voce. E l’appassionata necessità del pensatore di aprire un tavolo di trattativa a qualsiasi costo con ogni mezzo è l’imperativo che questo professore lascia agli studenti e a tutte le persone presenti ad ascoltarlo: non bisogna lasciarsi scoraggiare dalla inevitabilità della guerra, ma bisogna cercare con tutte le forze un modo per arrivare alla pace. Gli studenti lo applaudono a lungo e lo accerchiano accompagnandolo tutti insieme all’uscita dell’Aula Magna dell’Accademia, mai così gremita, pieni di una nuova consapevolezza. Il primo passo di una lunga marcia con gli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Roma è stato fatto.
*Miriam Mirolla è responsabile delle Relazioni esterne dell’Accademia di Belle Arti di Roma