Un’analisi che unisce dati, teoria e voci dal dibattito pubblico per decifrare le trasformazioni sociali dell’Italia.
Le classi sociali in Italia sono cambiate profondamente rispetto al passato. Se un tempo era possibile individuare con chiarezza i diversi gruppi sociali, oggi la situazione appare molto più sfumata e complessa. Il libro “Le classi sociali in Italia oggi” di Piergiorgio Ardeni, insieme al dibattito organizzato dal think tank “Pensare Insieme” il 21 febbraio scorso a Roma nella sala “David Sassoli” di Palazzo Valentini, offre uno spaccato illuminante sulle trasformazioni in atto, tra precarizzazione del lavoro, stagnazione salariale e un’individualizzazione sempre più marcata.
Ma come si sono evoluti i concetti tradizionali di classe? Se Karl Marx vedeva nel conflitto tra capitale e lavoro il motore della storia e Max Weber analizzava la stratificazione sociale attraverso ricchezza e prestigio, oggi, alla luce di quanto dibattuto tra Pier Giorgio Ardeni, Francesco Sylos Labini, Roberto Ciccarelli, Miriam Mirolla e Agostino Marottoli sulla scorta del sondaggio svolto da Pensare Insieme sul tema in questione, questi modelli appaiono insufficienti per descrivere la realtà. La società non è più quella fordista del Novecento, con classi ben definite e conflitti chiari, ma neanche una società completamente “liquida”, come teorizzava Bauman. È una realtà in cui i confini di classe sono meno visibili ma, paradossalmente, più rigidi.
Secondo il sondaggio associato al libro, il 42% degli intervistati ritiene che le classi sociali abbiano contorni “abbastanza sfumati“, mentre il 65% concorda sul declino della classe media. Questo dato riflette un cambiamento profondo: l’appartenenza di classe non è più un elemento centrale dell’identità individuale, ma le disuguaglianze persistono e si fanno sempre più marcate. Come ha osservato il giornalista Roberto Ciccarelli durante il dibattito, “siamo passati da una società fordista a una liquida, dove l’identità di classe si dissolve nell’incertezza“. Tuttavia, Ardeni avverte che il conflitto tra capitale e forza lavoro non è scomparso, ma si è trasformato: oggi è nascosto dietro il linguaggio della meritocrazia e della flessibilità, che spesso mascherano disuguaglianze di opportunità e ostacoli alla mobilità sociale.
Uno degli aspetti più critici è il ruolo delle reti sociali nell’accesso alle opportunità. Se in passato il titolo di studio rappresentava un biglietto d’ingresso per migliorare la propria condizione economica, oggi la situazione è molto diversa. Il 51% del campione riconosce ancora l’importanza dell’istruzione, ma il 26% dubita della sua efficacia in un mercato del lavoro dominato dalle conoscenze personali. In altre parole, il “capitale culturale” non è più sufficiente: può formare cittadini critici e consapevoli, ma non garantisce loro un futuro migliore. Francesco Sylos Labini, astrofisico e figlio del noto sociologo Paolo Sylos Labini nonché esperto dei sistemi complessi, ha evidenziato come la meritocrazia sia spesso un concetto ingannevole: “invece di unire, divide“, premiando chi ha già vantaggi iniziali e lasciando indietro chi parte da una posizione di svantaggio.
La possibilità di migliorare la propria condizione sociale è oggi più difficile rispetto agli anni ’90: lo conferma il 72% degli intervistati. I giovani, in particolare, si trovano bloccati in un sistema che offre pochi sbocchi stabili: contratti precari, salari stagnanti e un sostegno pubblico sempre più ridotto. Il consigliere comunale Mariano Angelucci, nel suo intervento di saluto istituzionale al dibattito, ha denunciato questo problema con parole chiare: “i giovani sono intrappolati in contratti precari, mentre lo Stato abdica al suo ruolo redistributivo“. Su questo tema, un’altra categoria particolarmente colpita è quella dei NEET (giovani che non studiano né lavorano), spesso considerati non come individui “pigri”, ma come vittime di un sistema che non offre loro prospettive concrete. Il 62% degli intervistati associa questa condizione a fattori strutturali più che a scelte personali. Infatti, alla questione dei giovani e a quella economica, il sondaggio di Pensare Insieme, aggiunge anche le forti disuguaglianze geografiche e di genere. Il 67% degli intervistati riconosce che il divario Nord-Sud incide pesantemente sulle opportunità di crescita, mentre l’80% denuncia disparità salariali tra uomini e donne.
Il quadro delle classi sociali in Italia oggi, appare dunque marginalizzato da termini sempre più complessi dove, come sottolinea Francesco Sylos Labini: “il più è maggiore della somma delle parti” e dove i termini marxiani sono stati sostituiti dai più pragmatici e politically correct “stratificazione” e “disuguaglianza”.
Ma quali sono stati i fattori chiave nel fenomeno di riconfigurazione o disgregazione oppure marginalizzazione del senso di appartenenza sociale? Nella “liquefazione” del concetto di classe, l’individualizzazione – uno dei fenomeni più ambigui del nostro tempo – gioca un ruolo chiave in tal senso proprio in virtù della riduzione ai minimi termini di ogni aspetto di riconoscimento personale in un aggregato di status collettivo. Teorizzata da sociologi del calibro di Zygmunt Bauman, Ulrich Beck e Anthony Giddens, da un lato ha favorito l’autonomia delle persone, dall’altro ha eroso la coscienza collettiva ed i processi di formazione ad essa associati. Non a caso, il 38% degli intervistati si dichiara “neutro” rispetto all’appartenenza di classe, segno di una crescente disconnessione sociale.
La politica non è esente da responsabilità, anzi, sia nella prospettiva del passato che in quella del presente, la scelta di abbandonare la rappresentanza per classe sociale ha determinato l’appiattimento della rappresentanza ad una non meglio definita classe media, subordinata al mainstream globale ed economico ancor prima dei reali bisogni collettivi. “La politica ha smesso di parlare alle classi, preferendo narrazioni di successo individuale“, ha sottolineato Miriam Mirolla, presidente di Pensare Insieme. Questo cambio di prospettiva ha lasciato spazio a un paradosso: mentre la sinistra storicamente si occupava delle classi lavoratrici, oggi molti sentono che non le rappresenta più. L’85% degli intervistati ritiene che il divario tra ricchi e poveri sia uno dei problemi principali del Paese, e il 79% accusa i partiti di aver abbandonato le classi lavoratrici. Come ha osservato ancora Ciccarelli, “la sinistra non rappresenta più gli operai, ma neppure i nuovi poveri: insegnanti, medici, precari“.
“La crisi della classe media è lo specchio di un Paese che ha smesso di investire nel futuro“, ha commentato Ardeni. E i numeri lo confermano: il 65% degli intervistati vede la classe media sempre più in difficoltà, schiacciata tra un’élite di super-ricchi (il 10% della popolazione detiene il 55% della ricchezza nazionale) e un esercito di lavoratori poveri. In tal senso, è interessante una riflessione di Massimo Maria Ferranti, vicepresidente di Pensare Insieme, che punta il dito sulla volubilità con cui vengono determinati i parametri di appartenenza alla classe media, variabili in ribasso e in rialzo a seconda dell’opportunità politica e fiscale: “non è che l’appiattimento delle classi nell’egida del we’re all middle class now di bleiriana memoria di fatto sia solo un escamotage funzionale al consenso partitico? Chi ha deciso che un reddito di 50.000 Euro piuttosto che di 30.000 o di 80.000 è da classe media?”.
Di fronte a un panorama così frammentato, emerge una domanda fondamentale: come si può ristabilire un senso di appartenenza e giustizia sociale? La risposta non è immediata, ma sicuramente richiede una politica in grado di affrontare le disuguaglianze in modo olistico, coprendo aspetti come il reddito, la questione di genere, il territorio e l’accesso alla cultura. Tuttavia, questo non è sufficiente: le prospettive analitiche devono essere adattate alla complessità sociale attuale, che estende la visione marxista e weberiana e si apre a nuove strutture, evoluzioni e ambizioni umane. Come sottolineato dal sociologo Agostino Marottoli, curatore del sondaggio, “sono necessarie politiche pubbliche che affrontino le disuguaglianze da ogni angolazione“. Per raggiungere questo obiettivo, è necessario cambiare prospettiva: non basta più una singola teoria per spiegare la complessità del presente. È richiesto un approccio che combini la critica marxista del capitale con la sociologia delle reti, la stratificazione di Weber con l’ecologia sociale.
In un’Italia sempre più divisa, ricucire il tessuto sociale non è solo un’aspirazione: è un’urgenza democratica e, proprio di questo, Pensare Insieme tornerà a parlare in futuro con nuovi spunti e nuovi interlocutori.
Report relativo al sondaggio effettuato da Pensare Insieme:

Sociologo dell’innovazione, Segretario Generale di Pensare Insieme
Derubricando le classi sociali a “stratificazioni” o “disuguaglianze” e rendendone i confini più labili e sfumati, il capitalismo neoliberista ha atomizzato la coscienza di classe riducendola ad un esasperato individualismo che è risultato determinante nel disarticolare le lotte di classe (divide et impera). Pur essendo diventati più vicini e meno visibili, i confini delle classi sociali sono diventati decisamente più rigidi che in passato, costituendo allo stato attuale dei veri e propri muri di vetro che bloccano l’ascensore sociale e limitano i gradi di libertà delle nostre esistenze.
Il “Siamo tutti classe media” di Tony Blair della seconda metà degli anni 90 ha eliminato alla radice ogni ragion d’essere del conflitto di classe, delegittimandolo persino a sinistra!, con ciò rappresentando un vero e proprio spartiacque tra le sinistre socialiste e comuniste e quelle post-comuniste, affette a mio parere da complesso di inferiorità nei confronti del capitalismo dopo la caduta del Muro e l’infrangersi del sogno del Sol dell’Avvenire.
Le sinistre europee ed italiane, infatti, hanno avuto ed hanno una grande responsabilità nell’aver “archiviato” troppo in fretta l’ineludibile conflitto tra capitale e lavoro, e con esso la coscienza e la lotta di classe, sposando modelli più o meno edulcorati di socialdemocrazia sempre più distanti da una vera rappresentanza del crescente disagio sociale che, nel frattempo, ha precipitato In Europa e soprattutto in Italia la presunta agiata classe media blairiana verso la soglia della povertà.Il movimentismo, l’attivismo spontaneo, la cittadinanza attiva rischiano di essere iniziative estemporanee se non c’è una solida entità politica in grado di rappresentarne le istanze e di stimolare a sua volta nella società la formazione di coscienze di classe. Perché senza coscienze di classe, e dunque senza il fondamentale collante della solidarietà collettiva oggi purtroppo molto rarefatta, non potrà certo esserci la necessaria forza d’urto per poter incidere a favore del lavoro e dei lavoratori.
E la determinazione del capitale per fare in modo che ciò non si abbia nuovamente a ripetere in Italia è dimostrato dal metodico accanimento terapeutico con cui la legislazione sul lavoro (dalla Legge Treu al Jobs Act) e la normativa sugli appalti, che oggi vorrebbe favorire il dumping contrattuale dando mano libera ai subappaltatori per applicare contratti diversi da quelli concordati tra Stazioni Appaltanti ed Appaltatori principali, stanno rinforzando l’atomizzazione dei rapporti e la disintermediazione tra capitale e lavoro (a tal proposito appare mirabile l’esempio riportato da Ardeni sul mondo degli appalti).
In conclusione, è giunto il tempo che le sinistre recuperino i fondamentali: in primis l’ineludibile conflitto tra capitale e lavoro, che può essere gestito in maniera quanto più equa possibile solo favorendo la crescita di coscienze di classe solidali che portino alle lotte necessarie per riequilibrare la distribuzione della ricchezza, oggi drammaticamente sbilanciata in favore di un capitale che amplia sempre di più le distanze tra classe dominante e classi dominate all’interno di un nuovo Feudalesimo, per di più anche tecnologico, caratterizzato da un’imperante e pervasiva deregulation.
Claudio De Meis