Produttività totale dei fattori e mercato del venture capital

Produttività totale dei fattori e mercato del venture capital


Articolo apparso su Il Sole 24 Ore del 24/09/2024

La prima delle tre grandi aree di intervento per rilanciare la crescita sostenibile, raccomandata nel rapporto Draghi sulla competitività europea, è quella di accelerare l’innovazione e riorientare gli sforzi collettivi per colmare il divario con Stati Uniti e Cina. I dati del documento sono impietosi: “La posizione dell’Europa nelle tecnologie avanzate che guideranno la crescita futura è in declino. Solo quattro delle prime 50 aziende tecnologiche del mondo sono europee”.

È l’innovazione nelle tecnologie avanzate la principale leva della produttività. La produttività totale dei fattori – che misura come capitale e lavoro si trasformano in produzione di beni e servizi – è in peggioramento. Esprime fondamentalmente il contenuto tecnologico delle produzioni: se migliora, permette di mantenere o accrescere il tenore di vita, a parità di risorse naturali impiegate.

Il rallentamento del trend della produttività totale dei fattori è alla base di più della metà della decelerazione della crescita economica globale, registrata dalla crisi finanziaria del 2008 in poi. L’economia USA da due decenni mostra un drammatico rallentamento della produttività: tra il 1947 e il 2005, la produttività del lavoro statunitense è cresciuta a un tasso medio annuo del 2,3%. Dopo il 2005, il tasso è sceso all’1,3%, secondo l’FMI.

A fronte di questo declino di produttività USA, sorge scetticismo circa l’efficiente allocazione dei movimenti di capitali tra le borse internazionali. Secondo l’ultimo Global Investment Returns Yearbook di UBS, gli Stati Uniti continuano ad attrarre capitali internazionali e vantano il mercato borsistico più grande al mondo, con una capitalizzazione totale di 46,2 trilioni di dollari (a fronte di un PIL a prezzi correnti di 28,8 trilioni di dollari), circa 56 volte la dimensione della Borsa italiana (mentre in termini di popolazione gli USA sono solo 5,6 volte più grandi del nostro Paese). Attualmente, con 12,1 trilioni di euro di capitalizzazione di mercato, l’Unione Europea rappresenta il secondo mercato azionario per grandezza, ma mostra un divario ancora notevole rispetto agli USA. Il valore complessivo delle azioni globali ammonta a 109 trilioni di dollari e l’Italia vi contribuisce solo per uno 0,8%, mentre il suo peso sul PIL mondiale è superiore al 2%.

Il premio Nobel Michael Spence ha recentemente proposto di contrastare il progressivo declino di produttività con politiche pubbliche a sostegno delle PMI e delle start up che promuovono l’innovazione, con crediti d’imposta mirati, sovvenzioni all’innovazione, riqualificazione della forza lavoro e riduzione delle barriere all’ingresso. Ma anche i capitali di rischio privati dovrebbero fare la loro parte. Un recente paper intitolato “Stepping up venture capital to finance innovation in Europe” imputa al sottosviluppo del venture capital nell’UE il divario di produttività. Nell’ultimo decennio gli investimenti in capitale di rischio nell’UE sono stati in media dello 0,3% del PIL all’anno, meno di un terzo della media statunitense, che ha raccolto 800 miliardi di dollari in più rispetto ai corrispondenti fondi UE. Ne consegue che molte startup europee in crescita raccolgono fondi all’estero e poi si trasferiscono altrove.

In Italia, dove il numero di microimprese e PMI rappresenta oltre il 99% del totale, questa indicazione andrebbe presa in seria considerazione. Vanno bene misure come la Legge Capitali e il Piano Transizione 5.0, soprattutto se reso strutturale. Ma resta carente un ecosistema per far crescere le start up ad alta tecnologia. Le banche non fanno intermediazione in quel segmento, a causa delle limitate garanzie tangibili offerte e dei vincoli normativi e di vigilanza che non favoriscono le esposizioni rischiose. Questo ci priva di casi di successo come Chat GPT che nel novembre 2022 ha rilasciato la sua prima release di AI. Solo sette anni prima nasceva come associazione senza scopo di lucro. Mai sarebbe giunta ai successi attuali, se Sam Altman, il suo fondatore, non fosse cresciuto in Y Combinator, un incubatore di start-up che ha contribuito al successo di realtà come AirBnB, Dropbox, Twich. C’è da augurarsi che garanzie pubbliche e incubatori legati alle università facciano da volano per questo settore ad elevato valore aggiunto, che attrae giovani talenti.

Accettazione dei termini di privacy
0 Commenti
Meno recenti
Più recenti Più votati
Inline Feedbacks
Vedi tutti i commenti
Immagini protette da copyright